Se siamo uniti, Dio è tra noi. Ergo se non siamo uniti, Dio non è presente.
Da questa equazione deriva tutto il resto: la spiritualizzazione del consenso, la demonizzazione del dissenso, l’annullamento della coscienza personale, la riduzione del senso critico, la trasformazione della comunità in un corpo psicologicamente collettivizzato. Per molti, questa dinamica è stata fonte di colpa, di repressione, di sofferenza, di perdita di sé. Per la Chiesa, un nodo non ancora sciolto che ha generato danni profondi senza che se ne cogliesse la portata.
La nevrosi tende poi a mutare in ideologia quando il gruppo le conferisce autorità carismatica, la istituzionalizza negli statuti, la trasmette pedagogicamente ai nuovi membri, e infine la circonda di protezioni teologiche che la rendono immune dalla critica razionale. Quello che il Movimento dei Focolari dovrebbe fare – e che probabilmente non farà, perché significherebbe confessare il vuoto al centro della sua identità – è una presa di responsabilità storica: ammettere che la fondatrice ha trasferito le sue rigidità psichiche in una struttura teologica e istituzionale, e che questa struttura ha causato danni reali a persone che sono state costrette a negare il loro pensiero legittimo in nome di un'unità spirituale che era solo uniformità. Solo allora la proposta spirituale della Lubich potrebbe essere purgata delle sue scorie psicopatologiche e potrebbe ritornare a quello che probabilmente era in nuce: carità evangelica, l'idea che l'amore reciproco vince tutto.
E non è un dettaglio da poco. Sovente purtroppo questa unità, pretesa, imposta, comandata, forzata, è stata la prassi malata e storta dell'agire focolarino, sopratutto nella vita di consacrazione. È forse lo sbaglio teologico più macroscopico della Lubich che alla "Grazia" ha sostituito il "fare". E anche in questo caso si tratta di un utilizzo e un'interpretazione del Vangelo fin troppo disinvolti, ad uso e consumo delle sue nevrosi che talvolta poi sono maturate in derive e abusi spirituali. Sono tristemente ben note al nostro pubblico frasi come "fammi unità", "teniamo Gesù in mezzo", ecc... che ben esprimono questa pretesa e questo modo di fare meccanico. Così dietro le più sante intenzioni si nasconde la fragilità di chi ha invece bisogno del diktat "si fa come dico io". Insomma "tutti siano uno" e guai a chi sgarra!
Le venne impedito: probabilmente Giuseppe Maria Zanghì, noto come Peppuccio, riuscì nell’intento di riportare la cara leader a più miti consigli. La teologia morale infatti non consente voti su realtà non oggettivabili. Il diritto canonico vieta ogni forma di promessa che limiti la libertà interiore oltre i tre voti classici. La psiche umana inoltre non può essere vincolata a un modello di autosvuotamento continuo senza conseguenze. Eppure, il quarto voto di unità non approvato è diventato prassi. Nessuno lo pronuncia, ma tutti lo vivono. Nessuno lo chiede, ma tutti lo sanno. È non scritto, ma interiorizzato: essere sempre d’accordo, per non rompere l’unità.
Per gli addetti ai lavori qua trovate dei documenti che provano quanto sto dicendo. (vedi link) Non potendo legare le coscienze con un voto solenne Chiara Lubich riuscì comunque ad aggirare l’ostacolo strutturando la vita delle comunità con i famosi strumenti della spiritualità collettiva. Già questa dicitura “strumenti” sa di meccanico e sorvoliamo sull’aggettivo "collettiva" di sovietica memoria. Siamo invece in presenza di un’omologazione forzata. Mentre i Gesuiti usano gli Esercizi (espressione comunque marziale) per "discernere" la volontà di Dio sulla propria vita (individuale), gli strumenti della Lubich sembrano servire a "fondere" le volontà in un unico blocco. Si tratta di pratiche che dovrebbero favorire l'unità e l'amore reciproco tra le persone: il patto dell'amore scambievole, la comunione d'anima, la comunione delle esperienze sulla Parola vissuta, il colloquio e l'ora della verità. In realtà sono pratiche che ammazzano la spontaneità e costringono l’individuo a conformarsi alle dinamiche di gruppo per evitare l’ostracismo. Se il voto d'unità sarebbe stato un atto giuridico, gli "strumenti della spiritualità collettiva" sono invece un atto psicologico, più sottile, pervasivo, capace di penetrare in quel santuario della coscienza che persino la Chiesa dichiara inviolabile.
- ... la prontezza - se ci fosse richiesta - a dar la vita l'uno per l'altro, … il totale quotidiano morire di fronte ai fratelli, in uno spogliamento esteriore ed interiore dalle cose materiali a quelle spirituali.... anche il distacco dal nostro pensare. L'"altissima povertà di mente" - direbbe san Francesco. Distacco che permette di capire fino in fondo il pensiero del fratello e che esige il donare con generosità e garbo il nostro pensiero al fratello. Distacco che genera l'unità di pensiero. A noi, come ai primi cristiani, quest'unità di pensiero è richiesta. Diceva san Paolo: "Vi esorto pertanto, fratelli, (...) ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero..." (1Cor 1,10).
- ... puntando sul realizzare sempre l'unità di pensiero.
- .. dovrà portarci ad essere tutti di un solo pensiero.
- ... se io comprenderò bene l'altro (e ciò lo otterrò mettendomi vuoto di fronte ad esso) ed egli capirà bene me, la sintesi sarà presto fatta e sarà il pensiero di Gesù fra noi.
- ... aver sempre l'"unità di pensiero".
Da questi estratti è possibile delineare una critica teologica che evidenzia come l'idea dell'"unità di pensiero" di Chiara Lubich rischi di essere una deviazione dal Magistero della Chiesa e una forma di deriva dottrinale. Vediamo perché.
L’affermazione "il pensiero di Gesù fra noi" è teologicamente inquietante. Per la tradizione cattolica, la presenza di Cristo non è generata da un clima psicologico di unanimità, né tantomeno dall’uniformità delle opinioni. Cristo è presente nei sacramenti, nella Parola, nel povero, nella libertà dei figli di Dio che cercano la verità insieme, anche nel conflitto; basti solo pensare alla storia della chiesa. Trasformare l’unanimità interna nella condizione sacramentale della presenza divina significa creare una forma di teologia autoreferenziale, in cui il gruppo diventa luogo di rivelazione e il consenso diventa criterio di verità. Se la sintesi è “il pensiero di Gesù fra noi”, allora il dissenso non è semplicemente un’opinione diversa: è un attentato alla presenza divina, una frattura ontologica nella vita del Movimento, un fallimento spirituale. Chi dissente non rompe una relazione: rompe Dio. Il risultato è una comunità che non può ammettere la dissonanza, perché la dissonanza equivale a bestemmia. Da qui la pressione psicologica, il conformismo spirituale, la paura di esprimere dubbi, la paralisi critica che ha segnato intere generazioni di focolarini. Quando in focolare qualcuno osava dissentire non era raro sentirsi ammonire con la frase: "Tu non vuoi fare quello che vuole Gesù in mezzo!".
Come aggravante va aggiunto che i focolarini e le focolarine erano e ancora ad oggi sono convinti che Chiara Lubich fosse capace di garantire l’unità e generare “Gesù in mezzo” solo con la sua presenza (per le grazie straordinarie che credeva aver ricevute da Dio fin dall’infanzia). In sintesi, l'"unità di pensiero" della Lubich sembra sostituire la fede (l’assenso dell'intelletto alla Verità divina) con la fusione e l'annullamento dell'intelletto nel gruppo. Questa "nevrosi dell'unità" non produce una comunione di santi, ma un monolitismo ideologico che nega la libertà dei figli di Dio, deviando pericolosamente verso un modello di setta in cui l'autorità del fondatore si sostituisce alla coscienza individuale. L’errore e la colpa più grande di Chiara Lubich quindi è aver blindato ermeneuticamente la presenza di Dio tra le anime come adesione ad un pensiero unico, che quando era in vita coincideva con il suo:
Se siamo uniti Dio è tra noi = se siamo d’accordo dio è tra noi.
Questa infelice equazione lubichiana produce logicamente un cortocircuito spirituale perché implica che se non si è d’accordo Dio non é presente. Si intuiscono le ripercussioni sulle dinamiche di vita comunitaria che tanti di noi hanno sperimentato sulla propria pelle. E a queste condizioni certamente Dio scappa a gambe levate lasciandosi dietro un bagaglio di sensi di colpa, tanta manipolazione e un bel terreno dove l’abuso prospera come i funghi dopo le prime piogge autunnali.
Questa non è comunione: è manipolazione spirituale. Non è carità: è controllo del foro interno. Non è discernimento: è pressione psicologica. Non è santità: è un sistema psicoreligioso che ha sostituito la libertà cristiana con un modello collettivo di obbedienza affettiva.
Da questa equazione deriva tutto il resto: la spiritualizzazione del consenso, la demonizzazione del dissenso, l’annullamento della coscienza personale, la riduzione del senso critico, la trasformazione della comunità in un corpo psicologicamente collettivizzato. Per molti, questa dinamica è stata fonte di colpa, di repressione, di sofferenza, di perdita di sé. Per la Chiesa, un nodo non ancora sciolto che ha generato danni profondi senza che se ne cogliesse la portata.
La nevrosi
Chiara Lubich aveva una indubbia difficoltà a gestire il dissenso e sono quasi del tutto persuaso che buona parte dell’impianto della sua proposta spirituale altro non fosse che il tentativo di gestire questa sua nevrosi. Si tratta di un meccanismo difensivo irrazionale elevato a principio spirituale.La nevrosi tende poi a mutare in ideologia quando il gruppo le conferisce autorità carismatica, la istituzionalizza negli statuti, la trasmette pedagogicamente ai nuovi membri, e infine la circonda di protezioni teologiche che la rendono immune dalla critica razionale. Quello che il Movimento dei Focolari dovrebbe fare – e che probabilmente non farà, perché significherebbe confessare il vuoto al centro della sua identità – è una presa di responsabilità storica: ammettere che la fondatrice ha trasferito le sue rigidità psichiche in una struttura teologica e istituzionale, e che questa struttura ha causato danni reali a persone che sono state costrette a negare il loro pensiero legittimo in nome di un'unità spirituale che era solo uniformità. Solo allora la proposta spirituale della Lubich potrebbe essere purgata delle sue scorie psicopatologiche e potrebbe ritornare a quello che probabilmente era in nuce: carità evangelica, l'idea che l'amore reciproco vince tutto.
"Tutti siano uno"
Questa nevrosi della Lubich è condensata persino nella lapide dove è citato il versetto tratto dal vangelo di Giovanni, il testamento di Gesù: "... che tutti siano uno" (Gv 17,21). Solo che è riportato monco o quanto meno in maniera imprecisa, forzandone il significato. Così come è trascritto suona piuttosto come un imperativo categorico: "Tutti siano uno", tipico del pensiero "lapidario" della Lubich che non ammetteva qualcosa che fosse diverso dal suo. L'avessero almeno riportata in latino "...ut omnes unum sint", quindi una consecutiva introdotta da "affinché", si sarebbe evitato questo sentore di comando militare. L'unità implorata da Gesù al Padre è infatti un accorato desiderio (che lascia il destinatario libero), un moto del cuore, una "Grazia" non un imperativo categorico, non un automatismo a comando, qualcosa di meccanico che solo perché lo vogliamo succede.E non è un dettaglio da poco. Sovente purtroppo questa unità, pretesa, imposta, comandata, forzata, è stata la prassi malata e storta dell'agire focolarino, sopratutto nella vita di consacrazione. È forse lo sbaglio teologico più macroscopico della Lubich che alla "Grazia" ha sostituito il "fare". E anche in questo caso si tratta di un utilizzo e un'interpretazione del Vangelo fin troppo disinvolti, ad uso e consumo delle sue nevrosi che talvolta poi sono maturate in derive e abusi spirituali. Sono tristemente ben note al nostro pubblico frasi come "fammi unità", "teniamo Gesù in mezzo", ecc... che ben esprimono questa pretesa e questo modo di fare meccanico. Così dietro le più sante intenzioni si nasconde la fragilità di chi ha invece bisogno del diktat "si fa come dico io". Insomma "tutti siano uno" e guai a chi sgarra!
Il voto d'unità
Questa faccenda dell’Unità era per Chiara una ossessione tanto che provò persino ad aggiungere un quarto voto ai tre che i consacrati sono soliti pronunciare quando entrano in focolare: povertà, castità e obbedienza. Chiara al colmo della sua megalomania provò seriamente ad aggiungere il quarto voto di unità. Avrebbe voluto chiedere ai consacrati di promettere formalmente a Dio non un comportamento, ma una condizione psicologica permanente, un'armonizzazione continua con il suo ideale e con il corpo comunitario. Un voto del genere, se approvato, avrebbe trasformato l’identità religiosa in appartenenza psicologica, sostituendo la libertà della coscienza con un’obbedienza diffusa, indistinta e difficilmente definibile.Le venne impedito: probabilmente Giuseppe Maria Zanghì, noto come Peppuccio, riuscì nell’intento di riportare la cara leader a più miti consigli. La teologia morale infatti non consente voti su realtà non oggettivabili. Il diritto canonico vieta ogni forma di promessa che limiti la libertà interiore oltre i tre voti classici. La psiche umana inoltre non può essere vincolata a un modello di autosvuotamento continuo senza conseguenze. Eppure, il quarto voto di unità non approvato è diventato prassi. Nessuno lo pronuncia, ma tutti lo vivono. Nessuno lo chiede, ma tutti lo sanno. È non scritto, ma interiorizzato: essere sempre d’accordo, per non rompere l’unità.
Per gli addetti ai lavori qua trovate dei documenti che provano quanto sto dicendo. (vedi link) Non potendo legare le coscienze con un voto solenne Chiara Lubich riuscì comunque ad aggirare l’ostacolo strutturando la vita delle comunità con i famosi strumenti della spiritualità collettiva. Già questa dicitura “strumenti” sa di meccanico e sorvoliamo sull’aggettivo "collettiva" di sovietica memoria. Siamo invece in presenza di un’omologazione forzata. Mentre i Gesuiti usano gli Esercizi (espressione comunque marziale) per "discernere" la volontà di Dio sulla propria vita (individuale), gli strumenti della Lubich sembrano servire a "fondere" le volontà in un unico blocco. Si tratta di pratiche che dovrebbero favorire l'unità e l'amore reciproco tra le persone: il patto dell'amore scambievole, la comunione d'anima, la comunione delle esperienze sulla Parola vissuta, il colloquio e l'ora della verità. In realtà sono pratiche che ammazzano la spontaneità e costringono l’individuo a conformarsi alle dinamiche di gruppo per evitare l’ostracismo. Se il voto d'unità sarebbe stato un atto giuridico, gli "strumenti della spiritualità collettiva" sono invece un atto psicologico, più sottile, pervasivo, capace di penetrare in quel santuario della coscienza che persino la Chiesa dichiara inviolabile.
L'unità di pensiero
Ma purtroppo non finì lì. Nel febbraio del 1996 (vedi link) si arriverà al parossismo: nel messaggio mensile del “collegamento” la cara leader invita tutti all’unità di pensiero. Ricordo che già a suo tempo questa sua proposta non mi piacque per nulla, suonava strana. Ecco alcuni estratti:- ... la prontezza - se ci fosse richiesta - a dar la vita l'uno per l'altro, … il totale quotidiano morire di fronte ai fratelli, in uno spogliamento esteriore ed interiore dalle cose materiali a quelle spirituali.... anche il distacco dal nostro pensare. L'"altissima povertà di mente" - direbbe san Francesco. Distacco che permette di capire fino in fondo il pensiero del fratello e che esige il donare con generosità e garbo il nostro pensiero al fratello. Distacco che genera l'unità di pensiero. A noi, come ai primi cristiani, quest'unità di pensiero è richiesta. Diceva san Paolo: "Vi esorto pertanto, fratelli, (...) ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero..." (1Cor 1,10).
- ... puntando sul realizzare sempre l'unità di pensiero.
- .. dovrà portarci ad essere tutti di un solo pensiero.
- ... se io comprenderò bene l'altro (e ciò lo otterrò mettendomi vuoto di fronte ad esso) ed egli capirà bene me, la sintesi sarà presto fatta e sarà il pensiero di Gesù fra noi.
- ... aver sempre l'"unità di pensiero".
Da questi estratti è possibile delineare una critica teologica che evidenzia come l'idea dell'"unità di pensiero" di Chiara Lubich rischi di essere una deviazione dal Magistero della Chiesa e una forma di deriva dottrinale. Vediamo perché.
L’annientamento della coscienza e dell’intelletto (deriva quietista)
Il Magistero della Chiesa (si pensi alla Gaudium et Spes) insegna che la coscienza è "il centro più segreto e il santuario dell'uomo", dove egli si trova solo con Dio. L'invito al "quotidiano morire" e al "distacco dal nostro pensare" proposto dalla Lubich non viene qui presentato come un sano distacco dall'egoismo, ma come uno spogliamento delle facoltà intellettive stesse. Esigere la "povertà di mente" come rinuncia al proprio pensiero critico è un'offesa alla dignità dell'uomo creato a immagine di Dio (Imago Dei), dotato di ragione e volontà. Questa richiesta di "fare il vuoto" per accogliere il pensiero altrui somiglia a certe forme di quietismo condannate in passato, dove l'annullamento della personalità individuale è visto erroneamente come condizione per la santità.Confusione tra consenso umano e Rivelazione divina (eresia dell’immanentismo)
Il testo del collegamento afferma che se io mi svuoto e l'altro mi capisce, la sintesi sarà "il pensiero di Gesù fra noi". Qui si configura un errore teologico gravissimo: l'identificazione di un processo psicologico e sociale (la sintesi di due opinioni umane ottenuta per sottrazione) con la presenza reale e l'ispirazione di Cristo. Il Magistero insegna che la presenza di Gesù nella comunità non annulla le differenze né garantisce l'infallibilità del pensiero del gruppo. Sostenere che l'uniformità di vedute sia automaticamente "il pensiero di Gesù" è una forma di immanentismo gnostico, in cui la divinità viene ridotta a un prodotto della coesione del gruppo.L’affermazione "il pensiero di Gesù fra noi" è teologicamente inquietante. Per la tradizione cattolica, la presenza di Cristo non è generata da un clima psicologico di unanimità, né tantomeno dall’uniformità delle opinioni. Cristo è presente nei sacramenti, nella Parola, nel povero, nella libertà dei figli di Dio che cercano la verità insieme, anche nel conflitto; basti solo pensare alla storia della chiesa. Trasformare l’unanimità interna nella condizione sacramentale della presenza divina significa creare una forma di teologia autoreferenziale, in cui il gruppo diventa luogo di rivelazione e il consenso diventa criterio di verità. Se la sintesi è “il pensiero di Gesù fra noi”, allora il dissenso non è semplicemente un’opinione diversa: è un attentato alla presenza divina, una frattura ontologica nella vita del Movimento, un fallimento spirituale. Chi dissente non rompe una relazione: rompe Dio. Il risultato è una comunità che non può ammettere la dissonanza, perché la dissonanza equivale a bestemmia. Da qui la pressione psicologica, il conformismo spirituale, la paura di esprimere dubbi, la paralisi critica che ha segnato intere generazioni di focolarini. Quando in focolare qualcuno osava dissentire non era raro sentirsi ammonire con la frase: "Tu non vuoi fare quello che vuole Gesù in mezzo!".
Strumentalizzazione delle Scritture e monolitismo ideologico
L'uso di 1 Cor 1,10 ("siate in perfetta unione di pensiero") viene forzato verso un significato di uniformità assoluta. La tradizione teologica e l'esegesi cattolica interpretano l'esortazione di San Paolo come un invito all'unità sui fondamenti della fede e della carità, non come l'obbligo di rinunciare alla propria opinione su ogni aspetto della vita. Imporre che si debba essere "tutti di un solo pensiero" devia dal concetto cattolico di "Communio", che è "unità nella diversità". Questa interpretazione trasforma la proposta spirituale della Lubich in un sistema totalitario allergico al dissenso, laddove invece la Chiesa, almeno sulla carta, riconosce la legittima pluralità di opinioni (si veda il Codice di Diritto Canonico sulla libertà di opinione dei fedeli).Violazione del "foro interno"
La Lubich parla di un "distacco che permette di capire fino in fondo il pensiero del fratello". In teologia morale e nel diritto canonico, l'intimità della coscienza (il foro interno) è inviolabile. Una spiritualità che obbliga o spinge i membri a una trasparenza totale dei propri pensieri per raggiungere una "unità" predefinita viola la libertà spirituale dei singoli. Questo "fare il vuoto" diventa uno strumento di pressione psicologica che impedisce l'esercizio della virtù della prudenza e del discernimento personale, delegando la propria bussola morale al "sentire collettivo" o al leader di turno.Come aggravante va aggiunto che i focolarini e le focolarine erano e ancora ad oggi sono convinti che Chiara Lubich fosse capace di garantire l’unità e generare “Gesù in mezzo” solo con la sua presenza (per le grazie straordinarie che credeva aver ricevute da Dio fin dall’infanzia). In sintesi, l'"unità di pensiero" della Lubich sembra sostituire la fede (l’assenso dell'intelletto alla Verità divina) con la fusione e l'annullamento dell'intelletto nel gruppo. Questa "nevrosi dell'unità" non produce una comunione di santi, ma un monolitismo ideologico che nega la libertà dei figli di Dio, deviando pericolosamente verso un modello di setta in cui l'autorità del fondatore si sostituisce alla coscienza individuale. L’errore e la colpa più grande di Chiara Lubich quindi è aver blindato ermeneuticamente la presenza di Dio tra le anime come adesione ad un pensiero unico, che quando era in vita coincideva con il suo:
Se siamo uniti Dio è tra noi = se siamo d’accordo dio è tra noi.
Questa infelice equazione lubichiana produce logicamente un cortocircuito spirituale perché implica che se non si è d’accordo Dio non é presente. Si intuiscono le ripercussioni sulle dinamiche di vita comunitaria che tanti di noi hanno sperimentato sulla propria pelle. E a queste condizioni certamente Dio scappa a gambe levate lasciandosi dietro un bagaglio di sensi di colpa, tanta manipolazione e un bel terreno dove l’abuso prospera come i funghi dopo le prime piogge autunnali.
La assemblea 2026, prossima sfida
Questa è la radice dell’autoreferenzialità di cui ancora soffre il movimento dei focolari. La pericolosità del "pensiero unico" si evince dalla incapacità dei focolarini a dialogare con l'esterno e pensare in modo differente dal proprio schema interno. A distanza di decenni, questa matrice è tutt’altro che superata. Il materiale preparatorio alla prossima Assemblea Generale 2026 (vedi link) lo conferma in maniera eloquente: tutto è presentato come “ascolto”, “discernimento”, “conversazione nello Spirito”, ma ogni dinamica è filtrata da una condizione preliminare non negoziabile, il “Patto di amore reciproco”, che funziona come collante psicologico e dispositivo di prevenzione del conflitto. In apparenza è evangelico. In realtà è il prolungamento della stessa logica di fondo: prima si costruisce l’unità, poi si parla. Prima si armonizzano gli animi, poi si cerca la verità. Prima si garantisce la comunione, poi si verifica la sostanza. Questo metodo potrebbe essere utilissimo, ma solo se viene esplicitamente liberato dall'aspettativa di convergenza totale. La comunione dello Spirito non annulla le differenze; le armonizza. Ma l'armonia non significa uniformità. Purtroppo una comunità che stabilisce l’armonia come premessa del pensiero non può tollerare chi non si armonizza. Il dissenso, in questa prospettiva, non è un'occasione , ma una trasgressione. Non è contributo, ma minaccia. Non è voce profetica, ma rottura del Patto. E dunque, inevitabilmente, non trova spazio reale. Può essere accolto formalmente, ma è neutralizzato sostanzialmente. La struttura stessa del metodo lo espelle.L'eredità
Così i focolarini si trovano oggi a dover affrontare una delle eredità più dolorose della loro storia: l’idea che il disaccordo equivalga all’assenza di Dio. Non si tratta di una semplice deformazione pratica, ma di un vero e proprio schema teologico interiorizzato. Migliaia di persone lo hanno respirato, assorbito, vissuto sulla propria pelle. Chi criticava veniva percepito come pericoloso non perché diceva il falso, ma perché turbava la presenza di Dio. Molti sono rimasti schiacciati da questo meccanismo. Molti hanno interiorizzato la colpa come categoria spirituale permanente. Molti hanno sofferto perché non riuscivano a “pensare come tutti”. Molti hanno imparato a tacere per non portare “divisione”. Molti hanno perso la propria identità personale nel tentativo di salvare l’unità comunitaria.Questa non è comunione: è manipolazione spirituale. Non è carità: è controllo del foro interno. Non è discernimento: è pressione psicologica. Non è santità: è un sistema psicoreligioso che ha sostituito la libertà cristiana con un modello collettivo di obbedienza affettiva.
Il ruolo della Chiesa
È difficile non vedere, oggi, quanto la Chiesa abbia faticato a cogliere la pericolosità di questa dinamica. La straordinaria espansione del Movimento, l’aura mistica della fondatrice, la convinzione che i movimenti fossero motori della nuova evangelizzazione, hanno oscurato la dimensione antropologica e psicologica di questi processi. Non si è voluto vedere che una spiritualità dell’unità può trasformarsi in una spiritualità della fusione, e che una teologia della comunione può produrre pratiche di disciplina invisibile.
L’unità proposta dalla Lubich si è trasformata in un sistema che ha confuso la comunione con l’uniformità, la presenza di Cristo con il consenso reciproco, il discernimento con l’allineamento psicologico. I riverberi delle sue nevrosi spirituali — non riconosciute, non elaborate, non corrette — sono diventati norma della comunità. Non possono essere ridotti a ingenuità carismatica: sono diventati una prassi consolidata, un criterio interno, un codice identitario.
L’unità proposta dalla Lubich si è trasformata in un sistema che ha confuso la comunione con l’uniformità, la presenza di Cristo con il consenso reciproco, il discernimento con l’allineamento psicologico. I riverberi delle sue nevrosi spirituali — non riconosciute, non elaborate, non corrette — sono diventati norma della comunità. Non possono essere ridotti a ingenuità carismatica: sono diventati una prassi consolidata, un criterio interno, un codice identitario.
La sfida
Oggi il Movimento dei Focolari non può più eludere questa realtà. Se vuole davvero riformarsi, se vuole essere Chiesa e non solo gruppo, deve infrangere la propria equazione più sacra: non c’è nessuna identità cristiana che si costruisca cancellando la coscienza personale; non c’è nessuna presenza di Dio che dipenda dal pensarla allo stesso modo; non c’è nessuna comunione autentica senza libertà; non c’è verità dove non si può dissentire. L’unità non è pensarla allo stesso modo: è cercare insieme, anche quando si pensa diversamente. Finché il Movimento non farà proprio questo principio, la ferita rimarrà aperta. E la Chiesa non potrà più permettersi di ignorarla.

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